C’è una medaglia d’ora al valor militare nella storia recente della nostra Montecarlo. La porta con se, nella memoria collettiva a volte un po’ sbadata, un ragazzo morto a 30 anni – gli stessi di chi scrive – per la verità uccisosi facendosi saltare aria con una bomba a mano che teneva, ferito e febbricitante, sotto il mento. Non ci importa oggi della medaglia, avuta postuma come tanti e troppi eroi facili a dimenticarsi nel nostro paese, bensì ci interessa ricordare l’uomo e concittadino, il suo tempo e la sua scelta. Nell’immensa memorialistica del giorno della Liberazione, ahimè oggi sempre più sinonimo di giorno festivo, mentre si dileguano per via naturale gli ultimi protagonisti e le letture più faziose ad uso della politica vanno scemando sotto il soffiare di problemi più pressanti e contingenti per gli italiani, privati del tempo materiale necessario alla coltivazione della propria ampissima identità, a noi resta Manfredo Bertini, il suo sorriso su una foto color seppia, le sue parole prima della morte, la sua passione in vita.
Nato a Montecarlo nel 1914, non era un militare di professione, tanto meno un militante politico, bensì un tecnico della fotografia e del montaggio, coniugato con un figlio, iscritto all’Università di Pisa e noto nell’ambiente cinematografico per le sue competenze in campo cinematografico (prima della guerra aveva curato – ad esempio - la fotografia di Pioggia d'estate del 1937, curandone anche il montaggio, Ragazza che dorme del 1940, Cenerentola e il Signor Bonaventura del 1941, Il Re d'Inghilterra non paga sempre del 1941, La casa senza tempo del 1943). La sua vita verso il sacrificio prende avvio, come quella di tanti ragazzi italiani, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quando l’Italia vede svanire lo stato con le sue istituzioni e diventa essa stessa un campo di battaglia e di rovine. Oggi la storia, con i suoi documenti, ha saputo trasmetterci il dramma di quei giorni letto negli animi dei giovani di allora, tra chi prese la strada dei monti, chi la strada di Salò, chi quella dell’attendismo sicuro. Entrare nel merito ci porterebbe lontano dall’intento di questo nostro post, ma per e nel contesto dell’Italia di quei giorni ognuno prese la strada che considerava obbligata – non dirò appositamente “giusta”, perché travaserei il presente nel passato e continueremmo a non venirne fuori – fosse quella della liberazione dall’occupazione tedesca e dal fascismo, quella della fedeltà all’alleato tedesco ed alla bandiera nazionale, quella della lealtà alla monarchia, quella dell’attesa della fine della guerra.
Manfredo fa la sua scelta ed è in Versilia nell’autunno del 1943 ad organizzare le prime fila della resistenza in Toscana. Scegli il suo nome di battaglia, Maber, dalle iniziali del suo nome e cognome e diventa punto di riferimento – ufficiale seguendo un lessico militare – del gruppo “Marcello Garosi” nella divisione Giustizia e Libertà. E’ il principale ideatore del viaggio di Vera Vassalle, che porterà alla nascita di “Radio Rosa” e conierà il detto “Per chi non crede” – monito per coloro che, seppur antifascisti, titubavano nel passare alla lotta armata - che sarà poi il segnale d’intesa concordato con gli alleati perl’aviolancio di Foce di Mosceta. Il 5 marzo 1944 finisce agli arresti in Versilia, ma con particolari rocamboleschi riesce a dileguarsi per rimettersi ad organizzare l’indebolita resistenza viareggina. Il 10 giugno Manfredo raggiunge Brindisi, si collega con gli alleati, segue un corso di addestramento per entrare far parte del Servizio Informazioni ed in agosto è paracadutato nel Piacentino. Entrato in contatto con la divisione partigiana Giustizia e Libertà “Piacenza” comandata da Fausto Cossu, nel novembre 1944 – dopo un’attività proficua di informazione trasmesse agli alleati che però non rispondono alle sue richieste di invio di armamenti per la resistenza – Bertini resta ferito, già ammalato, durante l’attacco e rastrellamento delle divisioni “Turkestan” e “Littorio”. Il 24 novembre si compie il suo ultimo atto di vita quando, impossibilitato alla ritirata se non a rischio dei propri compagni – decide di distruggere la propria radio trasmittente e suicidarsi con una bomba a mano. Prima del gesto Manfredo trova il tempo di scrivere alla famiglia:
Date le mie condizioni di salute, veramente pessime, a seguito della ferita ricevuta tre mesi or sono, sentendomi incapace a proseguire con mezzi propri, anche per la fatica sostenuta durante la giornata di oggi e d’ieri, sono costretto a fare quello che sono in procinto di compiere, per consentire agli altri componenti la missione di mettersi in salvo e continuare il lavoro. Sono certo infatti che la fatica che li attende i prossimi giorni nel tentativo di mettere in salvo sé e gli apparati sarà tale da non consentire la cura del sottoscritto; e sono certo d’altra parte, dati anche i rapporti di parentela e di stretta amicizia che mi legano con i componenti le missioni Balilla I - Balilla II, che per nessuna ragione al mondo, diversa da quella che io stesso sto per procurare, i detti componenti abbandonerebbero il sottoscritto. Giuro di fronte a Dio che la mia di stanotte non è fuga e questo desidero sappia mio figlio.
Nato a Montecarlo nel 1914, non era un militare di professione, tanto meno un militante politico, bensì un tecnico della fotografia e del montaggio, coniugato con un figlio, iscritto all’Università di Pisa e noto nell’ambiente cinematografico per le sue competenze in campo cinematografico (prima della guerra aveva curato – ad esempio - la fotografia di Pioggia d'estate del 1937, curandone anche il montaggio, Ragazza che dorme del 1940, Cenerentola e il Signor Bonaventura del 1941, Il Re d'Inghilterra non paga sempre del 1941, La casa senza tempo del 1943). La sua vita verso il sacrificio prende avvio, come quella di tanti ragazzi italiani, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quando l’Italia vede svanire lo stato con le sue istituzioni e diventa essa stessa un campo di battaglia e di rovine. Oggi la storia, con i suoi documenti, ha saputo trasmetterci il dramma di quei giorni letto negli animi dei giovani di allora, tra chi prese la strada dei monti, chi la strada di Salò, chi quella dell’attendismo sicuro. Entrare nel merito ci porterebbe lontano dall’intento di questo nostro post, ma per e nel contesto dell’Italia di quei giorni ognuno prese la strada che considerava obbligata – non dirò appositamente “giusta”, perché travaserei il presente nel passato e continueremmo a non venirne fuori – fosse quella della liberazione dall’occupazione tedesca e dal fascismo, quella della fedeltà all’alleato tedesco ed alla bandiera nazionale, quella della lealtà alla monarchia, quella dell’attesa della fine della guerra.
Manfredo fa la sua scelta ed è in Versilia nell’autunno del 1943 ad organizzare le prime fila della resistenza in Toscana. Scegli il suo nome di battaglia, Maber, dalle iniziali del suo nome e cognome e diventa punto di riferimento – ufficiale seguendo un lessico militare – del gruppo “Marcello Garosi” nella divisione Giustizia e Libertà. E’ il principale ideatore del viaggio di Vera Vassalle, che porterà alla nascita di “Radio Rosa” e conierà il detto “Per chi non crede” – monito per coloro che, seppur antifascisti, titubavano nel passare alla lotta armata - che sarà poi il segnale d’intesa concordato con gli alleati perl’aviolancio di Foce di Mosceta. Il 5 marzo 1944 finisce agli arresti in Versilia, ma con particolari rocamboleschi riesce a dileguarsi per rimettersi ad organizzare l’indebolita resistenza viareggina. Il 10 giugno Manfredo raggiunge Brindisi, si collega con gli alleati, segue un corso di addestramento per entrare far parte del Servizio Informazioni ed in agosto è paracadutato nel Piacentino. Entrato in contatto con la divisione partigiana Giustizia e Libertà “Piacenza” comandata da Fausto Cossu, nel novembre 1944 – dopo un’attività proficua di informazione trasmesse agli alleati che però non rispondono alle sue richieste di invio di armamenti per la resistenza – Bertini resta ferito, già ammalato, durante l’attacco e rastrellamento delle divisioni “Turkestan” e “Littorio”. Il 24 novembre si compie il suo ultimo atto di vita quando, impossibilitato alla ritirata se non a rischio dei propri compagni – decide di distruggere la propria radio trasmittente e suicidarsi con una bomba a mano. Prima del gesto Manfredo trova il tempo di scrivere alla famiglia:
Date le mie condizioni di salute, veramente pessime, a seguito della ferita ricevuta tre mesi or sono, sentendomi incapace a proseguire con mezzi propri, anche per la fatica sostenuta durante la giornata di oggi e d’ieri, sono costretto a fare quello che sono in procinto di compiere, per consentire agli altri componenti la missione di mettersi in salvo e continuare il lavoro. Sono certo infatti che la fatica che li attende i prossimi giorni nel tentativo di mettere in salvo sé e gli apparati sarà tale da non consentire la cura del sottoscritto; e sono certo d’altra parte, dati anche i rapporti di parentela e di stretta amicizia che mi legano con i componenti le missioni Balilla I - Balilla II, che per nessuna ragione al mondo, diversa da quella che io stesso sto per procurare, i detti componenti abbandonerebbero il sottoscritto. Giuro di fronte a Dio che la mia di stanotte non è fuga e questo desidero sappia mio figlio.
Groppo, 24 novembre 1944Manfredo Bertini
Questo quello che oggi possiamo raccontare. Manfredo riceverà il 4 dicembre 1945 la laurea “ad honorem” dall’Università di Pisa, poi la Repubblica Italiana conderà a lui una medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione:
Iniziatore della costituzione di unità di patrioti in Toscana, partecipava a molte azioni di guerra contro i tedeschi con raro sprezzo del pericolo. Traversate le linee si metteva a disposizione degli Alleati e si faceva aviolanciare in territorio occupato dai tedeschi. Incaricato dell'organizzazione del servizio informazioni inviava agenti nell'Italia settentrionale, trasmetteva più di 200 messaggi di notizie militari e collaborava nell'attuazione di numerosi lanci dagli aerei. Combattendo a fianco di un gruppo di patrioti rimaneva gravemente ferito e parzialmente paralizzato ad un braccio. In altra violenta azione contro soverchianti forze nazifasciste dopo essersi strenuamente difeso, esaurite le munizioni, immolava la sua giovane vita per la rinata libertà della Patria.Toscana, settembre 1943-30 novembre 1944.
Oggi lo ricorda una lapide appesa alla casa paterna in Montecarlo, una piazza intitolata nella frazione di San Salvatore, un monumento sul luogo in cui si tolse la vita alle Aie di Busseto nel comune di Pecorara in provincia di Piacenza. In provincia di Piacenza, inoltre, la storia di “Maber” Bertini è anche divenuto tema di un concorso scolastico da cui è nato un fumetto che ne narra le vicende. Con questo breve articolo vogliamo contribuire anche noi, contro l'andare fatale del tempo, ricordare - uno tra i molti certamente di cui la storia oggi ci lascia ancora il silenzio - un nostro concittadino, prima di tutto, caduto in gioventù nella battaglia della libertà d'italia. Farlo vivere ancora nella memoria a futuro ricordo di un momento in cui il nostro paese si trovo a lotta fratricida e dal cui sangue sorse l'Italia democratica di oggi. Dimenticare significa perdere il senso del sacrificio di molti, disperdere il senso della storia d'Italia, indebolire la nostra identità e prepararsi a seminare nuovi e più funesti presagi sul futuro. Un nuovo modo di comunicare si rende necessario.
Vittorio Fantozzi di Taccone
(le foto sono proprietà del Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia Ferruccio Parri)
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