Nelle pagine di questo libro si legge tutta la sofferenza di cui si fa carico un intellettuale, quando percepisce prima di ogni altro la gravità di processi inarrestabili che interessano per intero la propria nazione. Con grande lucidità, Pasolini ha profetizzato l’avvento della omologazione culturale, di cui è figlia la mia generazione. In particolare l’industrialismo, frutto di un capitalismo senza regole se non quella del profitto, ha provocato in Europa un definitivo genocidio culturale. Ne è vittima la millenaria cultura contadina che, seppur non scalfita da quel totalitarismo imperfetto che è stato il fascismo, è definitivamente caduta sotto i colpi inferti del martello del consumismo, “rovina delle rovine”. Modi di fare identici, medesimi vestiti, una “cultura” plasmata dalla televisione e dalla american way of life: ecco i giovani omologati visti con occhio quasi profetico da Pasolini. Eterni infelici, capaci solo di acquistare oggetti, hanno sostituito l’essere all’avere. Indifferenti ad ogni riflessione critica sulla realtà, in compenso sono divenuti sempre più consumatori di sostanze stupefacenti. Ma, mentre la volgarità e la stupidità emanate dal tubo catodico iniziavano ad avvolgere il cervello dell’ex homo sapiens, Pasolini invitava ad aprire gli occhi sui trabocchetti derivanti dal nuovo modello di vita imposto con arroganza dai mass media. Nemo propheta in patria, fu accusato dalla sottocultura di destra e di sinistra di essere un nostalgico di tempi andati (gli fu dato anche del fascista, il che per un marxista ha un bel dire).
In queste pagine scorgo un Pasolini profondamente cristiano, lontano dal bieco bigottismo di una certa ala cattolica e distante anni luce dalla posizione della Chiesa ufficiale, che ha capito poco o nulla dei problemi del presente. Questa, in nome di un passatismo senza più senso e troppo attaccata al formalismo, non è stata capace di fare i conti con i problemi della contemporaneità (in primis la mondializzazione). Per di più, intenta a cercare connivenze con il “Potere” si è fatta scavalcare in tutto e per tutto dal moderno laicismo. Con la pelle d’oca quasi sfioro la sua nostalgia per un mondo che non ho visto, quello in cui la notte era accesa dal lume delle lucciole, quello in cui proliferava il dialetto e non era stata operato un cambiamento quasi radicale dei valori. Purtroppo, come ha scritto Ignazio Buttitta in una sua bellissima poesia del 1970, il violino del dialetto sta perdendo una corda al giorno (mentre è in graduale aumento l’analfabetismo di ritorno) e l’inquinamento assieme alle lucciole sta facendo scomparire anche le api. E, nel mentre una edilizia arrogante a partire dagli anni settanta ha cominciato a divorare il paesaggio (si veda il film il Sorpasso), da Pescia a Montecatini siamo in grado di ammirare solamente un vasto strato di asfalto e cemento. Il genocidio culturale che ha sconvolto il mondo contadino si è “finalmente” concluso e l’omologazione ha fatto si che l’individuo prendesse definitivamente il posto della persona. Allora, come possiamo non dar ragione a Pasolini?
Dario Donatini.
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